Ripensare al Gruppo Spontaneo Handicappati vuol dire ripercorrere col pensiero i luoghi della Langa, dove ho lavorato per tanti anni.
Si era agli inizi degli anni ’80: con l’aiuto degli amici del Gruppo Spontaneo Handicappati di Alba avevamo cercato di fare un percorso di sensibilizzazione sul tema dell’integrazione dei disabili.
A Cortemilia eravamo un bel gruppo di giovani con molto entusiasmo ma poca esperienza: i genitori e i volontari del Gruppo Spontaneo di Alba, che allora erano venuti ad incontrarci, avevano lavorato con noi onde evitarci errori dovuti alla nostra scarsa conoscenza della tematica.
Ricordo bene quelle serate: le storie di vita vissuta raccontate dai genitori che affrontavano i disagi della strada e dell’inverno, per farci maturare e crescere in sensibilità ci avevano profondamente scossi.
Era indispensabile uscire allo scoperto, l’handicap non doveva più essere considerato una vergogna che, al massimo, suscita pietà. Le persone disabili erano (e sono) soggetti di diritto che giustamente reclamavano una risposta completa ai loro bisogni. E quando loro non erano in grado di reclamare occorreva che qualcuno imprestasse loro la voce perché i loro diritti avessero un’eco presso «chi doveva fare».
Da allora tanta strada è stata percorsa: le serate di sensibilizzazione hanno fatto sì che si iniziasse a parlare dei soggetti portatori di handicap; ora le persone sono più disponibili nei loro confronti che, in alcuni casi, sono già inseriti nei normali luoghi di lavoro e/o di svago di tutti. Parecchi servizi sono sorti, alcune risposte sono state date.
Credo però che l’impegno non possa e non debba terminare qui: nella misura in cui il ragazzo disabile sarà considerato da tutti e da ognuno portatore, oltre che di problemi e di bisogni, anche di ricchezze e di risorse, sarà veramente compiuta l’integrazione.
E questo un cammino lungo e faticoso che richiede un cambiamento di mentalità, e quindi un lavoro personale, una capacità di saper «vedere» oltre le apparenze, di saper leggere in profondità i piccoli gesti, di saper attendere, di saper godere delle cose semplici e da queste lasciarsene arricchire.
Richiede sì la capacità di «chinarsi sull’altro perché cingendogli il collo possa rialzarsi» ma anche di credere e di accettare che l’altro sia colui che può essere, quando la vita diventa difficile, RESPIRO PER I TUOI SOGNI, PIETRA SU CUI POGGIARE IL CAPO PER RITEMPRARSI E RIPRENDERE IL CAMMINO.
Mi viene spesso in mente la favola del leone e del topolino: tante volte noi «cosiddetti normali» ci crediamo leoni che accordano i favorì a chi è bisognoso d’aiuto. E ci sentiamo buoni.
Se crediamo veramente in una società a misura d’uomo, il contributo che ogni persona ha da portare alla costruzione della stessa, deve trovare qualcuno che lo accolga e lo valorizzi.
Uno slogan degli anni ’80 recitava: « Un mondo migliore per gli handicappati è un mondo migliore per tutti». E un mondo migliore per i disabili e per tutti è un mondo che riconosce e utilizza (capacità, forza, talenti ecc.) i doni che ognuno ha. Se anche noi operatori facciamo nostro questo percorso, riusciremo a dare ai nostri interventi e ai nostri progetti un indirizzo diverso, un respiro nuovo in cui il ragazzo disabile si vedrà riconosciuto come persona completa, «bisognosa di aiuto» ma al tempo stesso anche «capace di dare».
Nicoletta Bordone, Assistente Sociale