Vogliamo stare su una zolla, ma guardare al cielo. E’ il sottotitolo dell’Emmaus Book, opera di circa cento autori uniti per dare vita a un volume fotografico e narrativo che racconta le origini della storia di Progetto Emmaus e della Fondazione Emmaus per il Territorio Onlus, partendo dai volontari fondatori Armando Bianco e Vincenzo Torchio.
Sforzo dal duplice obiettivo: conservare la memoria di ciò che è stato rendendola nutrimento per il presente, guardare al futuro con sguardo di sogno. Il libro è stato pubblicato a dicembre 2020 ed è scritto da operatori, impiegati, ospiti, famigliari, volontari, utenti, collaboratori e amici che ogni giorno lavorano nel tentativo di immaginare percorsi inclusivi dal punto di vista sociale, relazionale, terapeutico per persone con disabilità o problematiche psichiatriche.
Tutto inizia 25 anni fa, con immagini che appaiono tra le prime pagine del libro e raccontano, ad esempio, le avventure di operatori, volontari e amici nel tentativo di costruire una storia, che dura ancora oggi.
Tra le pagine dell’Emmaus Book a ben guardare compaiono due libri: uno più concreto, l’altro più astratto. Le pagine del primo raccolgono i momenti della fondazione fino all’oggi. Le pagine del secondo raccolgono i grazie, i sogni, le paure, i vacillamenti e le resistenze, i fantasmi e gli stupori. Le voci di ospiti, operatori, volontari, famigliari sono la grammatica comune di questi due linguaggi che si intersecano, si richiamano. Senza uno non potrebbe esistere l’altro.
Il difficile 2020 che tutti abbiamo trascorso, è stato occasione per raccogliere le memorie e i racconti di episodi singoli o di percorsi condivisi. Ne è scaturito Emmaus Book: un caleidoscopio colorato che sprigiona la sua forza nella diversità dei punti di vista, nella ricchezza e nella semplicità. Il tutto unito da un profondo senso di umanità che lega gli interventi, e dalla gratitudine alla vita con gli incontri che questa permette.
Dalle pagine dell’Emmaus Book – Ad Armando
Nessuno potrà mai dimenticare quello che ha fatto Armando per i ragazzi più sfortunati e in particolare per gli psichiatrici abbandonati dalla società, spesso dalla famiglia per bisogno, per paura, considerati dagli altri pericolosi, degli alieni, a volte degli assassini apparentemente normali e quindi ancora più pericolosi. Nessuno comprendeva la malattia: vi era chi la considerava una “finzione” per non impegnarsi, chi gente pericolosa da cui stare alla larga. Armando ha dimostrato che tali persone sono come gli altri individui ma che ad un certo punto della loro vita a causa di un carattere più sensibile, e a causa di sofferenze, di shock, di isolamento, si sono ammalati nell’anima, nella loro affettività, non hanno saputo accettare la crudeltà della vita, della società, e sono andati in crisi diventando a volte persone irriconoscibili. No: Armando, con la sua intuizione e il suo impegno ha dimostrato che tali persone, se aiutate a organizzarsi una vita normale (gruppi appartamento) diventano “normali”, possono vivere con gli altri godendo di molte soddisfazioni e tanti di loro riuscendo a rientrare nella società dalla quale erano stati espulsi.
Armando ha creato i gruppi appartamento, uno, due, tre e altri ove i ragazzi vivono una vita normale, partecipano all’organizzazione della casa che sentono come propria, sono liberi – e sottolineo “liberi” – di entrare e uscire come fossero a casa loro, ma questa è casa loro. Alcuni vanno al lavoro, hanno le loro simpatie, fidanzate, affetti, e in questo sono aiutati da uno stuolo di operatori molto uniti tra loro e con un unico scopo: aiutare, capire, ascoltare, collaborare con i ragazzi.
Tali operatori sono chiamati a svolgere non un lavoro, ma una “missione”. Questo è sempre stato il primo punto richiesto prima di ogni assunzione. I ragazzi trovano nei loro “collaboratori” aiuto, comprensione, dialogo, affetto, stimoli (a volte anche rimproveri), senso di giustizia, molto importante per questi ragazzi vittime, spesso, di incomprensioni. Mi viene in mente Hitler, che aveva ordinato il loro sterminio considerandole “vite indegne di essere vissute”.
Un grande grazie ad Armando, Alberto e tutti i collaboratori. Resistere. Resistere. Resistere.
Giuliana Revello