Nella mia giovinezza gli anni del «sogno» si coniugarono, giorno dopo giorno, con gli anni della «realtà». Avevo scelto un lavoro nel sociale e avevo veramente fame di solidarietà e di giustizia. Come credente sentivo che la mia vita aveva un senso solo se vissuta nell’apertura alle provocazioni e ai problemi del mondo; nella lettura dei piccoli segni che potevo cogliere ogni giorno sul mio cammino. E le provocazioni, in quegli anni di boom economico, di consumismo a 360 gradi, di ricerca spietata di efficienza e di rapidità, non tardarono ad arrivare.
Erano gli anni in cui Alba dovette letteralmente dilatare case, scuole, ospedale e soprattutto mentalità, per accogliere quel considerevole numero di immigrati che portarono la popolazione da poco più di diciassettemila abitanti a quasi trentaduemila.
Erano gli anni in cui i sindacati avevano un’identità chiara, e così i partiti. Erano gli anni scanditi dagli slogan della partecipazione. Il mondo multiforme dei «diversi» rischiava, come sempre si è verificato nella storia, di essere tagliato fuori da ogni processo vitale.
Tra questi «deboli», i piccoli del Vangelo che rappresentano per intero il discorso delle Beatitudini, c’erano gli handicappati e le loro famiglie.
Mi ripeto, mentre scrivo, quei nomi e cognomi e do loro un volto, una storia.
Ogni storia era unica, irripetibile, ma tutte avevano in comune una specie di fil-rouge che le attraversava: la disperazione al momento della notizia dell’handicap del figlio (data spesso in modi forse scientifici ma certamente poco umani), la ricerca spasmodica e costosa di specialisti che potessero pronunciare una parola chiara su quella malattia e sulle possibilità di cura e di ricupero, il disagio a vivere il peso di una diversità che a ben pensarci appartiene a tutti ma che la società del «belli-forti-efficienti» non perdona; l’angoscia per il futuro, soprattutto al pensiero del nulla allora esistente a livello di strutture (a parte la preziosa opera della Piccola Casa della Divina Provvidenza).
Ma quello che era un vero e proprio urlo delle famiglie che incontravamo si affievoliva fino a diventare una flebile voce nella città, quasi un sussurro difficilmente percepibile.
Si trattava, allora, identificati i volti, di dare voce a quei piccoli e alle loro famiglie, affinché, secondo l’invito del Vangelo, nulla andasse perduto e l’uomo, tutto l’uomo, si riappropriasse della sua dignità.
Il Gruppo Spontaneo Handicappati iniziò un lavoro di sensibilizzazione a tappeto, presso comunità locali, parrocchie, partiti, scuole e associazioni; chiedendo ascolto e provocando una società che, allora come oggi, faceva finta che il problema non esistesse.
Furono anni di passione e di lotta. Nella lotta «perdevamo» il nostro tempo e le nostre energie ma altri amici si aggiungevano alla cordata… E dopo qualche anno i nostri sogni e speranze incominciarono ad avere consistenza; quella che ci sembrava un’utopia assumeva i segni visibili delle prime strutture pubbliche: l’apertura della prima Comunità Alloggio, un consistente inserimento scolastico con Insegnanti di Sostegno, due Centri Diurni, un Centro di Lavoro Protetto, un piccolo reparto di Fisioterapia presso l’ospedale.
Dette oggi, cosi, queste cose sembrano appartenere al medioevo della nostra storia, ma chi le ha vissute in prima persona sa esattamente il significato che acquistarono, in quegli anni, quei piccoli segni.
Da allora sono state portate avanti tante altre iniziative, nel pubblico e nel privato, e forse è anche cambiato l’atteggiamento di fronte al mondo dell’handicap. O forse no. Almeno non per tutti.
Perché chi si ferma a questo aspetto del tollerare che i disabili ci passino accanto o anche chi va oltre e magari chiede che si facciano strutture e si aboliscano le barriere architettoniche, se non abolisce la prima e più difficile barriera architettonica, che è quella della propria mentalità, del proprio modo di vedere le persone e di stabilire una scala di valori, non si ferma che ai primi passi.
Ed è già qualcosa, ma è ancora infinitamente poco rispetto alla ricchezza di un incontro personale, un qualcosa che non si può raccontare. Si può solo vivere da protagonisti.
Per questo quegli anni resteranno indimenticabili.
Ada Gonella – Assistente Sociale